I giuristi e il fascino del regime (1918-1925)

I giuristi e il fascino del regime (1918-1925)
A cura di:  Italo Birocchi, Luca Loschiavo
Editore: RomaTrE-Press
Data di pubblicazione: ottobre 2015
Pagine: 436
ISBN: 978-88-97524-41-0
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Abstract

Il volume – che si apre con una lunga introduzione dedicata al giurista come intellettuale e al suo rapporto con il potere in particolare negli anni che videro l’affermazione del fascismo – raccoglie una serie di saggi incentrati ciascuno su un diverso giurista attivo negli anni ’10 e ’20 del Novencento (E. Betti, P. Bonfante, P. de Francisci, G. Del Vecchio, E. Ferri, A.C. Jemolo, L. Lucchini, V.E. Orlando, Al. e Ar. Rocco, S. Romano, A. Solmi). L’intento comune è quello di ricostruire il differente percorso intellettuale che condusse tanti autorevoli studiosi delle diverse discipline giuridiche (provenienti da varie e distanti posizioni ideali e politiche) ad aderire al movimento dei ‘fasci’ nel momento in cui questo muoveva i primi passi e si avviava a conquistare il potere in Italia. Il volume si chiude con un’analisi della comparabile esperienza dei giuristi spagnoli di fronte al franchismo. Autori dei vari contributi sono: I. Birocchi, M. Brutti, G. Chiodi, F. Colao, C. Fantappiè, L. Garlati, C. Lanza, M. Lucchesi, V. Marotta, S. Martín, M.N. Miletti, A. Musumeci, F. Petrillo, D. Quaglioni.

Contributi

Presentazione

Luca Loschiavo

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/1

Il giurista intellettuale e il regime

Italo Birocchi

Il saggio indaga la relazione tra il fascismo e i giuristi sotto un duplice profilo: A) la formazione di una cultura autoritaria dello Stato, sintesi di ordine e di un potere da cui si originavano tutti i diritti compresi quelli individuali; B) l’affermazione del giurista come un intellettuale specializzato che, nel volgere della crisi dello Stato liberale, guardava ai modelli europei adattandoli originalmente alle condizioni della società di massa, implementando nel contempo il mito della nazione. Nonostante i percorsi individuali e gli orientamenti originari fossero variegati, andò tuttavia emergendo la figura di un giurista che affermava la centralità dello Stato etico, espressione di un articolato e complesso organismo che permeava tutte le branche del diritto (orientamento anti-individualistico). Non solo la giovane generazione di giuristi postrisorgimentali ma anche la maggioranza dei giuristi liberali appoggiarono il fascismo nelle sue istanze di ordine e di riaffermazione della sovranità dello Stato. Si ricordano i numerosi giuristi che si iscrissero al pnf sin dalla prima ora e si sottolinea il decisivo contributo che, nel contesto del formalismo tecnico e di una visione fortemente gerarchica e organicista, essi diedero per la costruzione dello Stato totalitario.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/2

Emilio Betti e l’incontro con il fascismo

Massimo Brutti

Gli studi di Emilio Betti (1890-1968) riguardano anzitutto, dal 1908 all'inizio degli anni 20, il diritto privato romano, la crisi dell'antica res publica e l'avvento del principato. La ricerca storica è strettamente legata ad un'originale riflessione filosofica sullo Stato e ad un orientamento anti-razionalistico. Alla base delle indagini storico-giuridiche vi è l'idea che l'origine del diritto sia nella violenza. L'ordine si costituisce con la forza. Lo Stato è come un'opera d'arte, che si oppone al caos.
Di fronte ai conflitti politici e sociali del primo dopoguerra, Betti vede nel fascismo il garante dell'ordine. Esso reprime la lotta delle classi lavoratrici, cancella il pluralismo sociale e politico.
Betti è ostile all'internazionalismo e al pacifismo; converge con Santi Romano e Alfredo Rocco nel pensare il diritto come potere che si impone, come forza prima che come regola. Anticipa alcune idee centrali nella cultura del fascismo, giungendo ad esse attraverso una riflessione autonoma e solitaria. Nel 1926 si schiera pubblicamente a sostegno del regime di Mussolini. In occasione di un attentato al capo del governo, afferma il diritto di ciascun cittadino alla rappresaglia contro i nemici interni. Costruisce una visione dogmatica del diritto privato d'impronta anti-individualistica ed autoritaria, che ispirerà il suo lavoro di giurista, fino agli ultimi scritti.
Nel 1935 delinea una teoria del totalitarismo come traguardo necessario dello Stato moderno.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/3

Alfredo Rocco e il fascino dello Stato totale

Giovanni Chiodi

Il saggio analizza gli scritti del periodo nazionalista di Alfredo Rocco che hanno segnato tappe essenziali del suo pensiero fino all’adesione al fascismo. In questi contributi si riscontra la matrice delle successive riforme realizzate nella veste di Guardasigilli del periodo fascista. Rocco dotò il nazionalismo di una dottrina, che consentì al movimento di assumere un’identità precisa nel contesto italiano. Il filo conduttore è la critica dell’individualismo, sia del liberalismo sia del socialismo, entrambi condannati in ogni dimensione in quanto ritenuti incompatibili con  uno Stato forte. L’obiettivo di Rocco era il superamento dello Stato liberale, la sua “trasformazione” in uno Stato nuovo, sindacale e corporativo, uno Stato totalitario capace di assorbire i nuovi soggetti sociali e fondato sul primato dell’esecutivo. Questo programma si coglie già in alcuni scritti del 1914, ma emerge in modo più netto nel dopoguerra, fino a confluire nella prolusione padovana del 1920. La sua risposta anti-liberale alla “crisi dello Stato”  fu accolta dal fascismo anche perché si presentava come l’esito di una strategia di lungo periodo e perché egli era in grado, per la sua forte preparazione giuridica, di realizzarla. Nella figura di Rocco, il giurista e l’uomo politico sono in stretta connessione: il diritto non è separato dalla politica.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/4

«Un fatale andare». Enrico Ferri dal socialismo all’«accordo pratico» tra fascismo e Scuola positiva

Floriana Colao

Enrico Ferri è stato per oltre trent’anni leader e parlamentare socialista. Fondatore della «Scuola positiva», dal 1883 ha legato il penale alla società, prospettandone il senso come «difesa sociale», e presentando, nel 1921, un Progetto di codice penale ancorato a principi integralmente positivisti, quali la responsabilità legale, a sostituire il principio di legalità. Nel 1923 Ferri aderiva al gruppo parlamentare dei Socialisti nazionali, disposti a collaborare col governo di Mussolini, per Ferri capo carismatico in grado di risolvere la crisi dello Stato liberale, nel fallimento del Socialismo italiano, irrisolto tra riforme e rivoluzione e dedito a lacerazioni fazionarie. Dal 1924 Ferri accentuava lo statualismo a scapito dei diritti individuali, teorizzando «Lo Stato, organo supremo e unitario della giustizia sociale» e i «diritti dello Stato nella difesa sociale». Alla ricerca dell’«accordo pratico» con l’idealismo e con l’«annunciata riforma penale dell’amico on. Rocco», apprezzava il ripristino della pena di morte per gli attentati politici. Membro della Commissione incaricata dal guardasigilli di un nuovo codice penale, del Progetto del 1927 Ferri apprezzava la previsione delle misure di sicurezza, cavallo di battaglia positivista. Riconosceva che il testo era fondato sul retribuzionismo, e, da evoluzionista, lo definiva tappa dell’«evoluzione ulteriore delle leggi penali»

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/5

Il conflitto delle fedeltà. Arturo Carlo Jemolo e il fascismo

Carlo Fantappiè 

Non è facile ricostruire il pensiero ideologico di A.C. Jemolo (1891-1981). Tra il 1912 e il 1914 assume posizioni nazionaliste e reazionarie in opposizione alle idee socialiste e massoniche. Alla vigilia della prima guerra mondiale aderisce a “Italia nostra”, un gruppo di intellettuali neutralisti. L’esperienza della guerra e l’incontro con Ernesto Buonaiuti provocano il suo distacco dal nazionalismo. In un primo momento respinge decisamente il fascismo come movimento sovvertitore dello Stato ma, dopo che esso si è consolidato, Jemolo è obbligato a scegliere una  linea di condotta che difenda i suoi princìpi. Tra il 1927 e il 1938 loda la figura di Mussolini e la sua politica ecclesiastica in diversi scritti. Dopo la caduta del regime, Jemolo reinterpreta il suo atteggiamento verso il fascismo come un “conflitto di fedeltà” tra lo Stato e il dovere d’ufficio, tra la propria etica e la coscienza cristiana. Nel 1947 la sua riflessione sfocia nella critica al formalismo giuridico e nell'affermazione dei limiti della funzione del giurista nella società.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/6

Arturo Rocco inconsapevole antesignano del fascismo nell’Italia liberale

Loredana Garlati

Il saggio si propone di offrire una lettura in chiave problematica del rapporto tra Arturo Rocco e il fascismo. Un’analisi approfondita della produzione scientifica dell’autore negli anni precedenti l’ascesa del regime rivela come nell’Italia liberale (e nel pensiero del Nostro) fossero già presenti in nuce quegli elementi che diverranno capisaldi dell’ideologia e della legislazione negli anni della dittatura. Nessuna presunta ‘conversione’, quindi, è imputabile a Rocco, ma una lunga gestazione di princìpi di cui il fascismo si nutrì, in una sorta di ribaltamento di prospettiva che ha fino ad ora caratterizzato il giudizio su Rocco. Anche la celebre prolusione sassarese con cui si diede avvio al metodo tecnico-giuridico merita una precisa contestualizzazione nel clima culturale dell’Italia di allora, per coglierne i tratti e le finalità originarie, depurati da quegli automatismi che ne caratterizzarono l’impiego negli anni a venire.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/7

La «realtà» di Pietro de Francisci

Carlo Lanza

Pietro de Francisci, eminente romanista, si dedicò intensamente alla metodologia del diritto sin dai primi anni di attività scientifica. L’antidogmatismo, il culto della “realtà”, l’idea della politicità del diritto furono capisaldi del suo pensiero. Ciò lo pose in armonia col regime: ne ebbe onori e cariche, ma anche amarezze.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/8

«Fedele seguace del PNF almeno dal novembre del 1920» A proposito dell’iscrizione di Arrigo Solmi al Partito fascista

Marzia Lucchesi

Il fortunato ritrovamento di una lettera conservata presso l’Archivio Centrale di Stato scritta da Arrigo Solmi nel febbraio del 1931 e destinata al segretario del partito fascista Giovanni Giuriati, getta luce su un passaggio a tutt’oggi oscuro della biografia dell’illustre storico del diritto quale quello della sua iscrizione al partito nazionale fascista. Nello specifico, la lettera traccia a rebours le fasi salienti del percorso che condusse Solmi ad avvicinarsi al fascismo: la sua prima esperienza politica legata alla  corrente del nazionalismo liberale maturata  nel corso del primo decennio del Novecento; la stagione della guerra; l’approdo al nazionalismo a seguito della sua elezione a consigliere  nelle amministrative milanesi del 1920 che lo vide coinvolto in un’«opera di assiduo e costante fiancheggiatore del fascismo»; la nomina nel 1924 a deputato del partito liberale nazionale che gli consentì di portare avanti la sua «continua costante opera di valorizzazione del partito nazionale fascista, che ebbe in me», sottolinea Solmi, «uno degli esponenti più in vista […] della corrente nettamente devota al fascismo e al duce».

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/9

«Mazziniano in politica estera e prussiano in interna» Note brevi sulle idee politiche di Pietro Bonfante

Valerio Marotta

Come ha più d’una volta ribadito il figlio Giuliano, Pietro Bonfante  non fu mai un nazionalista. Lo dimostra, in primo luogo, il suo atteggiamento sulla Dalmazia. Egli, soprattutto per ragioni storico-demografiche, contrastò ogni velleità d’annessione di queste terre. Descriverlo come avversario del colonialismo è senza dubbio inesatto, ma Pietro Bonfante – lo attesta la sua memoria in difesa di re Faysal di Siria – condannò decisamente la politica francese e inglese in Medio Oriente e l’accordo Sykes-Picot. Egli inoltre, a differenza dei nazionalisti, in politica economica fu un liberista, sebbene rifugisse anche in questo campo ogni dogmatismo. Fin dal 1915 si convinse che il ciclo storico del dominio mondiale europeo stesse per chiudersi e che Il futuro appartenesse ormai alle nuove realtà continentali e, in particolare, agli Stati Uniti d’America. L’unica via di salvezza per il vecchio continente era l’unione politica di Francia, Italia , paesi latini e Germania. La sua adesione al fascismo – mai sincera – fu distaccata e prudente e non gli impedì,  in pieno 1925, di avanzare progetti di riforma ispirati al costituzionalismo liberale.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/10

Dall’adesione alla disillusione. La parabola del fascismo nella lettura panpenalistica di Luigi Lucchini

Marco Nicola Miletti

Autorevole esponente della penalistica ‘liberale’, all’avvento del fascismo Luigi Lucchini si presentava quale anziano superstite d’una generazione che aveva visto nel diritto, e in particolare in quello penale, il perno d’un assetto costituzionale in grado di garantire al giovane Regno d’Italia l’equilibrio tra i poteri, il rispetto delle garanzie individuali, l’ordine pubblico. Proprio l’esigenza di sicurezza, al termine del biennio rosso, spinse Lucchini, che si era esposto sino a qualificare delitto il socialismo militante, a sostenere l’ascesa di Mussolini. La sintonia, però, fu breve: già all’inizio del 1924 il penalista si accorse che il governo brandiva con disinvoltura l’arma dei poteri straordinari ed esprimeva una «volontà più che dittatoriale». Il dissenso esplose con il delitto Matteotti e procurò a Lucchini, oltre all’isolamento scientifico, serie incomprensioni che ebbero anche spiacevoli risvolti giudiziari. Gli ultimi sforzi del giurista patavino furono tesi a rinverdire l’eredità della penalistica ‘civile’, in contrapposizione ai criteri che guidavano l’azione codificatrice del guardasigilli Alfredo Rocco.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/11

Santi Romano un giurista tra due secoli

Angela Musumeci

Quale relazione corre tra l’adesione del Romano al fascismo e la sua collaborazione piena al regime, per un verso, e le sue posizioni scientifiche con la relativa messa in atto delle stesse, per l’altro? Il saggio, nella consapevolezza di dover distinguere ideologia e teoria giuridica, ripercorre il percorso scientifico del giurista nelle sue interconnessioni con l’importante attività istituzionale. Se nel pensiero del Romano – discepolo e amico di V.E. Orlando – la ‘crisi’ dello stato liberale è già lucidamente denunciata nel 1909, è soprattutto durante gli anni della presidenza da Consiglio di Stato che si può meglio valutare l’impatto della realtà dell’amministrazione statale con la sua famosa teoria istituzionale.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/12

Excusatio non petita, accusatio manifesta. Giorgio del Vecchio e Giovanni Gentile: la sfortuna del giurista e la ‘fortuna’ del filosofo

Francesco Petrillo

Il saggio si interroga sulle cause, prima ancora che sugli effetti, della polemica tra Giorgio Del Vecchio e Giovanni Gentile, nell’ambito dello scenario culturale fascista. Più che seguire una traccia storica sui perché delle divergenze teoretiche, nella cultura fascista e nell’idealismo italiano, propone un’analisi filosofica sui germi del neoidealismo italiano, che, nel loro diverso utilizzo, si mostrano come il motivo dominante della differente costruzione giuridico-concettuale di due diverse filosofie del diritto. Da un’analisi attenta delle fonti risulta facile, infatti, riscontrare come ci fosse consapevolezza, nei due studiosi dell’età fascista, che la divergenza di pensiero giuridico dipendesse da una divergenza di Weltanschauung filosofica, prima ancora che politica. Rileva, in tal senso, particolarmente, il diverso utilizzo fatto da entrambi della filosofia di Antonio Rosmini Serbati al fine di studiare il senso filosofico dei distinguo giuridico-concettuali. In effetti, la filosofia giuridica di Del Vecchio, rispetto a quella di Gentile, si caratterizza per un’assenza di confronto con i temi - sempre più diffusi nelle Facoltà di Filosofia, ma non in quelle di Giurisprudenza, italiane in quegli anni - della Riforma spaventiana della dialettica di Hegel rispetto a quelli neokantiani.  L’interesse alle differenze tra le costruzioni concettuali non può però trascurare la vicenda della conflittualità antropologica, prima ancora che politica, tra i due antagonisti. Il conflitto dell’uomo con l’uomo diventa centrale, ancora una volta, attraverso le idee di fortuna e sfortuna in politica, punti di partenza e di conclusione del saggio.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/13

Il ‘peccato politico’ di Vittorio Emanuele Orlando

Diego Quaglioni

Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) fu protagonista della vita politica e intellettuale dell’Italia liberale, e fu riconosciuto come il principale esponente della scuola giuridica italiana di diritto pubblico. Capo del governo alla fine della prima guerra mondale, Orlando si mostrò ambiguo agli inizi dell’ascesa al potere del fascismo fino ad apparire come un fiancheggiatore di Mussolini, passando decisamente all’opposizione solo dopo il delitto Matteotti.  Una biografia di Orlando che sia capace di porre in relazione il suo pensiero giuridico e i suoi orientamenti politici, la sua vicenda accademica e la sua vicenda politico-parlamentare e di uomo di governo, manca ancora. Occorre rivedere in sede critica un’immagine di Orlando che si è imposta fino a divenire un luogo comune: quella di un Orlando “bifronte”, giurista e politico, oscillante, con un misto di tatticismo e di spregiudicatezza che alla fine si rivelò impotente ad ingabbiare le forze suscitate dalla crisi politica e parlamentare dei primi anni 20, maturata in seno alle varie e contrapposte tendenze del liberalismo italiano.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/14

Los juristas en la gènesis del franquismo ¿Un contraste posible?

Sebastián Martín 

L’oggetto di questo lavoro è il compito di legittimazione culturale della dittatura franchista sviluppato per i giuristi spagnoli tra 1937 e 1945. Il suo obiettivo é fornire un quadro complessivo utile per la comparazione con il percorso italiano. Si mettono a fuoco cinque questioni: in primo luogo, la rottura nella accumulazione e nello sviluppo del sapere giuridico causata dalla guerra civile e le ulteriori esecuzioni, esili e epurazioni dei professori universitari; poi, la legittimazione con gli argomenti del diritto del coup d’État del 18 luglio 1936. Dopo si esaminano le teorie che davano fondamento alla posizione suprema del dittatore. È anche oggetto d’indagine l’atteggiamento dei giuristi davanti alle grandi leggi del regime, segnato per l’esercizio di una esegesi acritica e senza costruzione. Infine, l’ultimo punto tratta lo studio dei sistemi giuridici del Terzo Reich e dell’Italia fascista che spesso facevano i giuristi spagnoli al fine di ricavare informazioni utili per il processo d’istituzionalizzazione della dittatura franchista.

DOI: 10.13134/978-88-97524-41-0/15

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