Effetti di verità. Documenti e immagini tra storia e finzione

Effetti di verità. Documenti e immagini tra storia e finzione
A cura di:  Marco Piazza, Sara Guindani
Editore: RomaTrE-Press
Data di pubblicazione: ottobre 2016
Pagine: 103
ISBN: 978-88-97524-80-9
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Abstract

Il presente volume trae origine dai lavori della giornata internazionale di studi su «Effetti di verità: documenti e immagini tra storia e finzione», che ha avuto luogo il 19 marzo 2015 presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre, in collaborazione con il programma Politiques des images della Fondation Maison des Sciences de l’Homme di Parigi. Il filo rosso che lega i contributi contenuti nel volume è l’indagine sullo statuto che documenti e immagini fotografiche assumono in rapporto ai testi e alla loro intenzionalità, ovvero alle conseguenze filosofiche che derivano dall’impiego massiccio della fotografia in testi che possono essere in varia misura ascritti all’ambito della letteratura. I saggi qui raccolti presentano dei percorsi interpretativi – tutti di taglio teorico – intrapresi tutti sulla scorta di un serrato confronto con autori e testi che vanno da Benjamin a Proust, da Warburg a Sebald, da Barthes a Modiano, da Kracauer a Mendelsohn. La loro trama contribuisce a delineare non solo la funzione epistemica della fotografia in rapporto alla scrittura, ma anche il profilo di una letteratura fittiva, né mera finzione né mera biografia storica, che grazie al medium fotografico riesce a fornirci un modo nuovo per esprimere la nostra esperienza del tempo e della memoria.

Contributi

Presentazione

Marco Piazza
Sara Guindani

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/1

Walter Benjamin et le photographein surréaliste de l’histoire

Marc Goldschmit

Un legame segreto congiunge, nel pensiero di Benjamin, la scrittura e la fotografia. Questa connessione è alla base del concetto di storiografia antifascista nel suo testo del 1940, le Tesi sulla filosofia della storia. La scrittura fotografica (il photographein) non appartiene all’essenza della verità come adeguatezza o come alètheia, e se c’è una verità del photographein, si tratta di un effetto senza causa, di un segno senza essere. Il photographein rivela «l’inconscio ottico» che brucia ogni «aura» e ogni soggetto, e fa emergere lo spettro della realtà. La fotografia può quindi diventare l’allegoria di una grafia generale della storia, in quanto fa tornare i morti come spettri. Si tratta, in tale photographein, di una reiterazione finzionale della storia che ne sospende il corso infernale. La storiografia rivoluzionaria non può fare a meno della fotografia, che è la tecnica di stampa e di scrittura degli spettri. La storiografia surrealista deve ricavare l’immagine dal passato correndo il pericolo dell’oblio radicale che minaccia di sopraffarlo; la sfida nel 1940 è peraltro la lotta contro il fascismo.

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/2

Proust à la Salpêtrière: entre cliché photographique et cliché social

Sara Guindani

Il mio articolo si propone di esaminare due diversi aspetti del lavoro di Proust, sempre considerati separatamente fino ad ora: in primo luogo, la passione divorante di Proust per la fotografia, già evidenziata da Brassaï, Mieke Bal e Jean-François Chevrier, tra gli altri. In secondo luogo, l’influenza che la cultura medica del tempo, molto presente nella famiglia Proust, ha esercitato sullo scrittore. Ci dedicheremo in particolare all’impatto della fotografia medica sulla scrittura della Recherche. La rappresentazione del corpo – e, in particolare, del corpo del malato di nervi – stava subendo un grande cambiamento tra il XIX e il XX secolo, tra Charcot e Freud. In che modo la Recherche di Proust ci offre una testimonianza di questo cambiamento? Le nuove tecniche per la cattura dell’immagine del corpo umano –  come la cronofotografia, i raggi X o i ritratti compositi di Francis Galton – estendono i propri usi al campo della medicina, della psicologia, della criminologia e della sociologia di quel tempo, innervando cosi molte pagine dell’immenso affresco sociale che è la Recherche. Nel tentativo di descrivere i caratteri sociali attraverso i ricorso alla fotografia, lo scrittore va a situarsi accanto al medico e al giudice istruttore del suo tempo.

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/3

Barthes e l’eccedenza dell’immagine

Daniela Angelucci

L’articolo si concentra su alcuni aspetti della teoria della fotografia sviluppata da Roland Barthes in La camera chiara (1980). In particolare, sottolinea la capacità della fotografia di andare oltre la semplice rappresentazione. Questa caratteristica è evidente specialmente riflettendo sul concetto di punctum, definito da Barthes come un dettaglio fatale nella foto, che ferisce, punge lo spettatore. Se un’immagine fotografica è una ‘emanazione della realtà passata’, il punctum è un elemento fondamentale, imprevedibile e dinamico, allo stesso tempo contingente e necessario. Al fine di cogliere tali caratteristiche del punctum, può essere utile la nozione di ‘inconscio ottico’, proposta da Walter Benjamin in Piccola storia della fotografia (1934) e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). L’inconscio ottico è qualcosa che eccede ciò che possiamo vedere nella fotografia e che lo stesso fotografo non può produrre intenzionalmente. L’articolo si conclude affermando la validità della teoria di Barthes anche per la comprensione della fotografia contemporanea.

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/4

Gli atlanti fotografici della memoria di Aby Warburg, Gerhard Richter e W.G. Sebald

Raul Calzoni

Il ruolo svolto dalla fotografia nell’opera narrativa e saggistica di W.G. Sebald è stato ampiamente indagato alla luce dei rimandi impliciti o espliciti alla Shoah, che le immagini in essa contenute offrono. Se è vero che la fotografia si pone nelle opere di Sebald l’obiettivo di dare voce – e persino un volto – alle persone che sono state perseguitate durante l’Olocausto e alla fine sono diventate vittime del passato, non si può dimenticare che gli iconotesti dell’autore mirano anche a rivelare quella che lo scrittore ha definito «la metafisica fodera interna della realtà». Perciò, le immagini agiscono nella scrittura di Sebald in modo duplice: da un lato, in prospettiva documentaria e, dall’altro, in maniera «letterariamente auto-cosciente», come Martin Swales ha definito le strategie estetiche dell’autore di alludere alla «metafisica fodera interna della realtà». Il contributo indaga questo duplice ruolo della fotografia nell’opera di W.G. Sebald, ponendola in dialogo con Mnemosyne (1924-1929) di Aby Warburg e con l’Atlas (1962-2013) di Gerhard Richter, per rivelare come i libri dell’autore possano essere considerati dei veri e propri atlanti di documenti e di ricordi che, organizzati attorno a specifiche «formule del pathos», simboleggiano sfide e paure metafisiche individuali e collettive.

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/5

Il caso ‘Dora Bruder’ di Patrick Modiano

Marco Piazza

In questo contributo cercherò di mostrare come l’aumento dell’uso di riproduzioni di fotografie in testi connessi alla ‘letteratura della memoria’ modifichi la percezione del lettore riguardo al modo in cui questi avvicina il testo di fronte a lui. Non solo, vorrei anche mostrare come questa modificazione potrebbe mettere a rischio la capacità evocativa del testo, creando la possibilità di un rovesciamento del rapporto tra immagini e testo, al punto che quest’ultimo potrebbe essere convertito in una sorta di commento alle prime, invertendo la gerarchia usuale che vuole l’immagine come un commento e un corollario del testo scritto. E pure come si possa forse parlare di una sorta di punto di equilibrio mobile continuamente ricercato dall’autore, che si muove in qualche modo in relazione al modo in cui egli stesso guarda alla sua operazione letteraria. Infine, come questa ricerca di equilibrio dipenda dal rapporto complesso intrattenuto con il piano della verità e con quello della finzione. Per cercare di dimostrare queste affermazioni mi servirò di un testo emblematico per la sua storia editoriale: Dora Bruder di Patrick Modiano (1997; 2a ed. 1999).

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/6

Dalla prosa di memoria al testo-saggio illustrato: W.G. Sebald, Daniel Mendelsohn e Alain de Botton

Elena Agazzi

L’oggetto di questo contributo è un’analisi comparata e allo stesso tempo contrastiva delle modalità con cui fotografie di persone, di paesaggi, di strutture architettoniche, di oggetti personali e di lettere e diari compaiono nelle opere di Alain de Botton, di Sebald e di Daniel Mendelsohn. Mentre il primo, però, viene accostato in modo provocatorio a uno scrittore del peso poetico-letterario di Sebald, dal momento che i suoi testi divulgativi non possono, se non in senso molto ampio, essere definiti come ‘narrativi’, Sebald e Mendelsohn hanno in comune una missione: ridare una voce e un volto a coloro ai quali la storia non ha riservato la fortuna di essere ricordati, perché sono stati sommersi dalla catastrofe della Shoah. Mendelsohn è riconoscibile come epigono di Sebald nella misura in cui la sua ricerca delle tracce di famigliari dispersi durante gli anni del Nazifascismo, pur essendo dichiaratamente una forma privata di viaggio nei ricordi, si appella alla memoria collettiva e anche perché si affida a tratti ad un uso del medium fotografico riconducibile allo stile di Sebald. Si indagherà dunque come nel Sachbuch (saggio divulgativo), nella Gedächtnisliteratur (letteratura della memoria) e nella Familiengeschichte (storia famigliare) l’immagine fotografica si riveli essere ora una forma di interferenza di carattere didascalico, ora di emersione mnestica dagli effetti perturbanti o, infine, un documento tratto dall’album di famiglia, fatto rivivere in associazione con immagini più recenti.

DOI: 10.13134/978-88-97524-80-9/7

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