Abstract
Utopia come ottimo luogo o non luogo, tradotto, questa volta, nei termini di una perfetta società delle macchine che riafferma la fiducia nell’assolutismo scientista e una posizione conservatrice fondata sull’immutabilità dell’umano? A cinquecento anni dall’utopia di Moro non vi è una via più duttile, capace di riflettere sulle trasformazioni future dell’umano? Quando apparve nel 1516 L’Utopia di Tommaso Moro voleva, secondo i più, esprimere il sogno rinascimentale di una società perfetta, in cui la cultura avrebbe dovuto regolare la vita degli uomini. Quella straordinaria ‘isola che non c’è’ è descritta ampiamente in uno spazio formata da cinquantaquattro città molto ben governate da abili magistrati e popolate da abitanti che lavorano poco, mai più di sei ore al giorno, producendo tutto ciò che serve per vivere, prelevando dai granai comuni secondo le proprie necessità. Individui tolleranti, pacifici, privi di avidità, gli abitanti di questa città ideale non hanno altri bisogni materiali, se non quelli che soddisfano facilmente nella vita comunitaria, facendo attenzione alle regole, persino a quelle dell’opportuna limitazione delle nascite. Il loro tempo libero è dedicato alla lettura, allo studio, alla musica, in termini contemporanei a realizzare l’ultima tappa dei bisogni di Maslow: la realizzazione di sé. Cosa resta di questo sogno straordinario nell’inconscio collettivo 500 anni dopo?